Una riflessione sull’allarme di Save the children: “In Italia il 51% dei quindicenni è incapace di capire un testo“.
Non è facile essere giovani oggi. Perché, oltre a cambiamenti climatici, pandemie, guerre, famiglie sfasciate, adulti stressati e distratti, ci si sente anche dire che non si sa leggere e comprendere un testo.
La domanda che sorge spontanea è se gli adulti di oggi sappiano leggere e comprendere i giovani.
E non è pura provocazione, non è il solito salto generazionale per cui “i vecchi” non capiscono le nuove tendenze e le criticano.
Quello che è accaduto negli ultimi 15 anni ha generato un salto culturale con conseguenze neurologiche sociali e comportamentali che non ha precedenti nella storia: gli occhi si sono spostati dal paesaggio allo schermo, l’affettività si è divisa tra mondo offline e online, la mente è intrattenuta costantemente da contenuti intangibili e globali.
Come possiamo noi boomer, capire un essere umano che ha vissuto nella strutturazione della sua personalità esperienze assolutamente incomparabili alla nostra? Forse, la soluzione non è andare a tentativi con riforme scolastiche a macchia di leopardo, noi crediamo che l’unica strada sia assolutamente un’altra, molto più radicale e non apicale: l’osservazione, l’ascolto e tanta umiltà.
E che il vero luogo da cui ripartire sia la famiglia.
Va preso atto del fatto che l’attuale modello di intervento per la tutela dell’infanzia sia fallimentare: il livello elevato di depressione e ansia troppo diffuse tra i più piccoli è stato denunciato a più voci dalla comunità medica. I casi di difficoltà di apprendimento e cognitive sono in costante aumento.
E i bambini sono sempre più soli, nelle mani di un tablet o di una Siri che gli raccontano le fiabe.
Come possiamo aspettarci che questo non abbia ricadute sulle capacità di comprensione di un testo?
Se i genitori fossero supportati nel loro ruolo, se ci fosse consapevolezza vera dell’importanza della presenza del genitore, non solo fisica ma anche emotiva e mentale, non ci troveremmo davanti ad una fotografia del genere sullo stato dell’infanzia in Italia.
Chiedetelo a qualsiasi docente o educatore: un bambino problematico ha nella assoluta maggioranza dei casi, genitori poco presenti. Impegnati a lavorare 12 ore al giorno, o stressati dalle preoccupazioni economiche o, semplicemente, ineducati loro stessi ad essere responsabili.
Perchè, diciamocelo, mentre siamo impegnati a fare gli adulti, i veri giovani spesso sembriamo noi. Volubili, distratti, incoerenti, litigiosi, impauriti dal futuro.
E questa pantomima di ruoli si riflette anche nella scuola.
L’istituzione scolastica, che paga lo scotto di un modello che non è al passo, ospita quotidianamente scene di ordinaria follia in cui la comunicazione tra docente e discente è assolutamente interrotta. Docenti che vorrebbero insegnare a studenti che vorrebbero loro, non a quelli che hanno. Come se la classe dovesse essere una bolla priva di rappresentazione del mondo reale, del quotidiano che poi il bambino ed il ragazzo si trovano a vivere. La mancanza di un sistema educativo connesso, come rete fisica e come rete virtuale, rende il sistema formativo anacronistico, decontesualizzato e inadatto, fallimentare per definizione. L’attività educativa non può stare fuori dalla rete, la rete è parte integrante della cultura del giovane e, in questo, abbiamo solo da imparare. Chiediamo e ci verrà spiegato.
Se c’è una cosa che caratterizza le nuove generazioni è l’assoluto rifiuto di riconoscere l’autorità precostituita e, parallelamente, la sete di autorevolezza autentica.
L’adulto che crede di essere rispettato solo per il suo titolo viene messo in discussione senza se e senza ma; quello che ha il coraggio di mettersi in gioco in uno scambio di reciproco rispetto e ascolto, viene riconosciuto degno del ruolo educativo che il titolo dovrebbe garantire.
Questo comporta il fatto che se ci vedono fare, progettare, declamare, ma ne vedono solo uno sbracciarsi fine a sè stesso, il fare senza visione, come per dire “ma io il mio l’ho fatto”, oppure, ancora peggio, declamazioni a fini politico/elettorale, ne comprendono immediatamente l’inconsistenza. E si sentono ancora più soli.
Li invitiamo a partecipare ad arene che ancora soffrono della vecchiaia della nostra visione arrogante, quella che fa finta di disprezzare tik tok e videogames ma che poi si strafoga, giustificandosi, di facebook e serie in streaming.
Sapete qual è la prima risposta che danno i giovani alla domanda del perché passino diverse ore al giorno nei social? “Per rilassarmi, per distrarmi.” Rilassarsi dalla pressione data da un sistema che gli chiede di essere diversi da come sono nell’incredibile incoerenza di essere stato il sistema stesso a crescerli a snack e device.
Gli stiamo chiedendo di parlare, di partecipare, ma abbiamo veramente voglia, o siamo veramente capaci di ascoltare?
Stiamo attenti perché loro, quelli che non sanno comprendere un testo, sanno distinguere tra verità e finzione.
E ci chiederanno il conto.