di Simone Campana, educatore e formatore Pepita
Pandemia, restrizioni economiche, iperconnettività e, nell’ultimo anno, la crisi energetica legata al perdurare del conflitto in Ucraina.
La crescente domanda di supporto psicologico appare una conseguenza naturale di questi anni complicati e severi. Una dinamica al centro dell’ultimo dibattito sulla manovra finanziaria, con il tema del bonus psicologo. Considerando i fondi stanziati – 5 milioni di euro per il 2023, 8 a partire dal 2024 – il limite di contributo sale fino a 1.500 euro, le richieste inevase saranno moltissime, dato che i 25 milioni erogati nel 2022 hanno coperto solo il 10% delle domande presentate.
Lo stigma di andare dallo psicologo è superato, ma cosa racconta?
Un dato sintomatico, che racconta un disagio ancora molto sommerso, ancorché trasversale, ma comunque tanto diffuso da superare un luogo comune che sembrava un punto fermo della nostra società: lo stigma legato al farsi seguire in un percorso psicologico si è ridimensionato. Da una parte si tratta di un’ottima notizia, dall’altra questo fenomeno ci interroga su una questione delicata, soprattutto in relazione ai bisogni delle nuove generazioni. Tutti quelli che avrebbero bisogno di un supporto psicologico “sanno” chiederlo? Si accorgono di averne bisogno? Le famiglie di ragazzi che potrebbero averne grande beneficio hanno gli strumenti per poter considerare i colloqui psicologici come una risorsa e non come l’inevitabile ultima ratio per risolvere un problema?
L’attuale approccio al disagio
Ed è da qui che provo ad aprire una riflessione che riguarda un modo comune nell’approccio al disagio. Se un adolescente sta male mandiamolo dallo psicologo, lo aiuterà a risolvere il problema; a scuola c’è un ragazzo disabile che ha una certificazione firmata da un neuropsichiatra dove c’è scritto che ha diritto a un numero di ore di assistenza educativa scolastica, vale a dire un educatore professionale che si dedica al minore; in oratorio si sono verificati degli episodi di droga: viene un formatore a far riflettere la comunità e a sensibilizzare sul tema.
Educatori, psicologi, psichiatri, terapeuti come sistemi
Questo modus operandi fa leva su uno schema riparativo, che può risolvere delle situazioni, ma che non prevede un approccio a 360 gradi in grado di garantire anche un’azione sistemica, con evidenti benefici in termini di prevenzione. Perché stiamo offrendo risposte binarie a situazioni complesse. Quanto ancora potremo considerare educatori, psicologi, psichiatri, terapeuti come “risposte” e non come sistemi? I limiti di un approccio binario sono evidenti: se il bisogno non è manifestato o intercettato non si attiva la risposta. Il problema è che i bisogni contemporanei non si vestono fluo: non appaiono, rimangono nascosti, inintercettabili, latenti, inespressi; e se le situazioni al limite, in qualche modo, vengono trovate, che ne sarà di quelle silenziose? Forse è lì che non stiamo lavorando: l’educazione è un tema di tutti, non solo di chi ha “bisogno”. E poi, quale bisogno?
E per tante ragioni capita molto (troppo) spesso che non ci sia nessuno ad ascoltarci, a farci guardare diversamente, a restituire immagini diverse dalle tradizionali.
Bonus psicologico? Sì, ma anche un bonus educativo
Oltre al bonus psicologo desidero un bonus educativo dunque, che possa strutturare e prevedere delle presenze educative che sappiano abitare le soglie, in grado di essere avamposti nei luoghi in cui l’educazione non viene vista. Un educatore in corridoio, un mediatore nel condominio, una psicomotricista ai giardini, un arteterapeuta al muretto, uno psicologo di quartiere, o perché no una danzaterapista sul tram.
Al di là dei paradossi, forse così inizieremo a pensare che l’educazione è una faccenda seria, di salute, e non una prassi da correggere quando si presenta un problema o una competenza da appaltare e delegare.
E magari inizieremo a cambiare approccio, quello del benessere come mito e del conflitto come demone. Non è una faccenda semplice, forse non esiste una strada sicura, ma sappiamo però che non lo stiamo facendo, perciò il bivio c’è: tentare l’ignoto ed evolvere o rimanere dove siamo, mezzi felici, mezzi tristi, ma soprattutto fermi.