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Cosa è successo ai ragazzi durante la pandemia?
Una domanda che si rincorre da mesi: libri, articoli, interviste e dibattiti. Soprattutto opinioni e giudizi, spesso lontani dalla realtà.
Come una recensione di un film mai visto, di un ristorante mai frequentato. Un’intera generazione definita “per sentito dire”. Un vociare interminabile di adulti con le giacche inamidate e le scarpe lucide che parlano sopra il mondo dei preadolescenti e dei teenager. Per fotografare la generazione Z, invece, bisogna scendere in campo, rimboccarci le maniche e consumare le suole. Calarsi nelle angosce, nell’agonia abitata dai più giovani e relazionarsi con loro, alla pari. Non a caso l’ “agone” è la parte dell’arena in cui si lotta per la vita.
Solo così possiamo contrapporre i sogni al dolore, la speranza al disincanto, l’amicizia alla solitudine. Prima, però, dobbiamo intercettare il grido di dolore dei nostri ragazzi, privati della leggerezza, dei facili entusiasmi e dell’ingenuità tipiche della loro età a fronte della rivoluzione imposta dal Covid-19.
Il mondo, non solo per loro, non sarà più quello di prima. A prescindere dalla macro questione sanitaria, tutto ciò che attiene alla socialità, alle relazioni, ai rapporti umani è stato segnato. Daggi effetti della mascherina nelle interazioni quotidiane – con buona pace della comunicazione non verbale – al ruolo predominante delle nuove tecnologie, finanche suppletive rispetto ai limiti imposti dal lockdown alla vita in modalità analogica.
Tutto è cambiato. Un principio cui non sfugge la pratica educativa.

Cosa significa “educare” nella società post pandemica?
Una domanda che, in qualità di presidente di una cooperativa di educatori, mi accompagna da quasi due anni. Anche nella mia personale dimensione di genitore. Una sola risposta non c’è, se non nel cambiamento che deve necessariamente seguire il corso e i mutamenti della storia, compresa quella surreale che stiamo vivendo negli ultimi tempi. Serve aprire una nuova frontiera educativa: nei linguaggi, nell’approccio, nelle prassi.
In modo di fare breccia nei cuori sospesi e nelle nuove inquietudini dei nostri ragazzi.

E allora, più di molti saggi accademici, di andamenti statistici e di scenari antropologici, in questa ricerca di un nuovo codice educativo ci può aiutare una lettera. Una testimonianza, un messaggio “dal fronte”di una giovane educatrice di Pepita che ogni giorno coltiva la sua professionalità non solo sui libri, ma tra i corridoi di una scuola coraggiosa, che ha compreso l’importanza di andare a prendere i problemi degli studenti, prima che si possano tradurre in fardelli. Una ragazza brillante, ma al contempo modesta.
Si definisce educatrice “ibrida”, “in prestito”, ma in realtà è perfettamente centrata su questi tempi, difficili, a volte amari, ma senza dubbio straordinari che stiamo vivendo. Buona lettura!

Ivano Zoppi – Presidente Pepita

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“Chi non rischia, non educa” 

Questa è la frase che mi accompagna ogni giorno nel mio lavoro di educatrice “sul campo”.

In particolare, vorrei parlarvi del nuovo compito che sono chiamata a portare avanti: l’educatore (im)previsto.

Da Settembre collaboro ad un progetto sostenuto dalla Cooperativa “Pepita Onlus” in una scuola superiore del Nord Italia: la particolarità del mio ruolo, infatti, è l’essere una figura “ibrida”. Non sto in classe con i ragazzi, non sono l’educatrice di un alunno in particolare, non sono un’insegnante, non sono una psicologa, non sono un’amica, ma sono un’educatrice di 28 anni a cui è stata data una postazione tra i due corridoi del liceo, crocevia di racconti e ascolto attivo.

Mi spiego meglio: ogni giorno da 1 a 3 liceali, chiedono al prof presente in classe di potermi raggiungere. Dopo averli accolti, mi raccontano le loro emozioni, le loro difficoltà e le loro paure. Sorprendentemente, mi accorgo attraverso i loro vissuti ma anche dall’esperienza diretta di quanti adolescenti soffrano di attacchi di panico, attacchi d’ansia, anoressia, depressione, autolesionismo, fobie scolastiche, disturbi emotivi ecc. 

Qual è il mio compito?

Innanzitutto, cerco di accogliere questo malessere, gestire l’imprevisto e dar loro un rimando educativo, così da permettergli di tornare in classe più tranquilli e continuare la lezione.

Oltre ad essere un supporto per gli alunni, lo sono anche per i docenti che si sentono supportati dalla mia presenza, capace di occuparsi in fase acuta di tali situazioni.

Mi capita che docenti e adulti mi chiedano “Ma come stanno gli adolescenti dopo il lockdown?” La mia risposta è “La situazione è complessa e richiede più attenzione di quella che immaginiamo!”.

Ogni giorno vedo ragazzi soffrire, crescere con fobie scolastiche, non essere spensierati come richiederebbe la loro età. Allo stesso tempo noto con che facilità, desiderio e fiducia si aprano a me. Alcune volte mi basta solo dire loro “Vuoi un fazzoletto? Così ti asciughi le lacrime” ed iniziano a parlarmi e raccontarmi tutto quello che provano. Quando questo accade, la domanda che mi pongo è sempre questa: “Se parlano così facilmente con me, quanto bisogno avrebbero di comunicare i loro vissuti?”.

Dalle ricerche emerge che gli adolescenti hanno subìto meno gli effetti fisici del Covid perché colpiti in misura minore rispetto agli adulti, ma stanno subendo quelli psicologici ed io ne sono testimone giornalmente.

Mi sono voluta definire l’educatrice (im)prevista, perché ogni giorno non è mai uguale ad un altro, ogni giorno mi trovo ad affrontare situazioni che prendono sviluppi differenti, ogni giorno conosco realtà uniche di adolescenti diversi.

Inoltre, come vi raccontavo qualche riga sopra la mia figura non è tra quelle previste dall’ordinamento scolastico ma è una figura nuova, nata dai bisogni emergenti dei ragazzi di oggi che si sono trovati a vivere una pandemia mondiale. La mia figura è stata voluta da una scuola capace di soffermarsi e ascoltare le necessità dei giovani; senza giudicarle, senza sottovalutarle ma semplicemente provando ad accoglierle e dare loro uno spazio.

Ritengo che per il mio ruolo siano essenziali alcuni requisiti:

–        Ascolto attivo
–        Osservazione
–        Empatia
–        Lavoro d’équipe
–        Instaurare una relazione di fiducia con i ragazzi e, se necessario, con la famiglia

Fondamentale è il rapporto di confronto quotidiano con il Preside, il Direttore e la psicologa della scuola per poi decidere insieme quali strategie adottare.

Molto importanti nel mio lavoro sono i momenti di informalità con i ragazzi, in particolare i due intervalli o i cambi dell’ora durante i quali posso parlare con loro, ma soprattutto osservare quello che fanno, come si comportano ed ascoltare quello che si dicono tra di loro. Molte volte sono proprio i ragazzi che vengono a cercarmi per raccontarmi come stanno, per chiedermi consigli ed io accolgo tutto questo e ne faccio tesoro.

Quando una situazione è complessa e il solo parlarne con me non li aiuta, consiglio loro di rivolgersi alla psicologa della scuola, esperta del settore, con cui poter definire un percorso ad hoc. Il mio lavoro consiste nell’accogliere la loro sofferenza, ascoltarli, tranquillizzarli, provare a dare loro un rimando educativo e rimandarli in classe un po’ più sereni. In alcuni momenti mi sento una sorta di “parafulmine”, in grado di attenuare il momento di dolore più forte e rilasciare piccoli momenti di tranquillità.

Il mio lavoro è davvero meraviglioso, sto scoprendo e imparando tante sfumature di questo ruolo, ma quello che mi permette di dare il massimo tutti i giorni è il ritorno che ho da parte di questi ragazzi: riuscire a dar loro un po’ di sollievo, farli stare meglio, le belle parole di ringraziamento che poi hanno nei miei confronti ed il fatto che vengano a cercarmi nei momenti di informalità per aggiornarmi o raccontarmi qualche fatto in particolare, sono le cose che amo di più e che mi spingono ad andare avanti nonostante la grande sofferenza che si nasconde dentro di loro e che vedo ogni giorno.